Franco Pedrina

Mario Perazzi

In realtà dovrebbe presentarsi da solo. Perché pochi artisti sanno parlare della buone pittura (la propria e quella di altri) come Franco Pedrina. Ma lui considera il veneto come l’unica lingua parlabile e ha bisogno di un interprete. Ci provo io che li voglio bene, lo stimo e credo di capirlo. Attenzione, però, a non equivocare sulla provincialità. In Pedrina non c’è nulla di strapaesano, nulla di folkloristico. Sarebbe come considerare Zanzotto, Tessa o Buttitta poeti regionali.
Pedrina è un raro artista che parla, vive e dipinge allo stesso modo. Con entusiasmo e melanconia, furore e dolcezza accanimento e passione. E con felicità. Anche se dipinge quasi esclusivamente apparizioni vegetali, nei suoi quadri non c’è nulla di bucolico, di rurale.
Pedrina vive in città pensando alla campagna, ma vive dentro la cultura del suo tempo, assimilandola per quello che è, nel bene e nel male. Pochi infatti immaginerebbero che qui in mostra ci sono scorci di boschi, guizzi innevati che in realtà sono ripresi dai giardini pubblici di Milano, una delle città con meno verde pubblico al mondo. Così come i suoi girasoli sono ricordi seccati alle pareti dello studio, come le polverose e atemporali bottiglie di Morandi.
Paradossalmente, si potrebbe dire che è stato Pedrina a far crescere quegli alberi ai giardini pubblici per poterli poi ricordare e dipingere. E potrebbe essere stato lui a far crescere le viti, a far scoppiare la bufera che scompagina un bosco di costa in un volo di gabbiani, a far salire ruvide conifere e a far maturare succose angurie (ma sono poi angurie?). Se vogliamo, è la vecchia storia di Pigmalione e Galatea, con l’autore che dà vita all’opera e finisce per identificarsi…
Nei quadri di Pedrina c’è tutto un brulicare di tensioni vitali, di umori che diventano colori, di forme che sono qualcos’altro, di metamorfosi che si sono già compiute o stanno per compiersi. E Pedrina ha voglia di raccontare tutto questo, di sentirselo sulla pelle e poi di metterlo sulla tela.
Non a caso riesce a lavorare per temi (i boschi, le viti, i nudi, le angurie) sfuggendo ad ogni etichetta, ad ogni ripetitività. Prende (proprio nel senso fisico di carpire, afferrare) un tema,ci vive dentro e lo illustra in tutti i suoi attimi, in tutti i suoi fremiti. Non ripete mai un soggetto meccanicamente: ogni replica è un nuovo atto di appropriazione.
È un modo di operare appassionato e appassionante. Ma difficile. Ci vogliono i mezzi per farlo. Mezzi morali e tecnici. In un momento come questo, in cui tanto si vanvera di “recupero alla pittura”, ci si dimentica talvolta che la pittura, oltre che volerla fare, bisogna anche saperla fare.
Abbiamo detto che Pedrina dovrebbe presentarsi da solo. E lo farebbe forse scrivendo quello che dice davanti a un quadro che giudica particolarmente riuscito: «Sono contento. È proprio bello. Fare il pittore è il più bel mestiere del mondo».
E ha ragione.

(Presentazione nel catalogo della mostra, Galleria Prati, Palermo, 1986)
(Presentazione nel catalogo della mostra, Galleria due Pini, Roma, 1988)

 

 

 


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